Dieci brevi o un po’ più lunghi capitoli, suddivisi in brevissimi paragrafi, dieci stazioni di una Via Crucis laica, si snodano davanti ai nostri occhi, all’apertura del libro di Laura Corbu, delizioso, curatissimo oggetto da sfogliare con molta attenzione quasi temendo di sciuparlo, tanto più, alla lettura, temendo di sciupare i sentimenti che vi sono espressi, la vita straziata e straziante che vi è rinchiusa. Piera Mattei, come racconta nella postfazione quasi fosse una fiaba, ha intuito, fin dalla prima mail ricevuta dall’autrice, che si trattava della “storia di un’anima”, un’anima ferita, lacerata, scannata dalla malattia mentale e ha dato credito e fiducia alla ragazza che le scriveva la quale, pur nascondendosi dietro uno pseudonimo, sembrava non voler celare nulla di sé, neanche la vergogna di esistere. La stessa capacità di scrittura, lo stile in definitiva, induceva l’editrice a pubblicare un testo che, per quel che riguarda la lingua, non ha avuto alcun bisogno del lavoro di editing, come in genere succede a quasi tutti i manoscritti, essendo assolutamente sincera e limpida, “di un pudore senza pudore” come sottolinea Piera Mattei.

Laura Corbu inizia il suo sconvolgente racconto dai primordi, quasi ab ovo o ex novo, dalla nascita in lei della facoltà di inventare storie a se stessa, come per trovare rifugio, nella fantasia e nella distrazione, ai mali del mondo che fin da bambina sentiva nella propria carne. Inizia a balbettare da piccolissima, ma non ci dice, forse non dice neppure a se stessa, nonostante l’impietosa analisi di ogni suo sentimento, da che cosa derivi questo suo immenso disagio di porsi di fronte alla parola parlata. Gli affetti spezzati, i giochi interrotti, il trauma spaventoso della scuola: tutto contribuisce a farla vivere come se fosse morta, “diversa, inutile, impacciata e sola” come scrive lei stessa ripensando alle lezioni umilianti delle Elementari, al dolore di sentirsi discriminata, che la spinge a procurarsi una deformazione al palato, a torturarsi, a odiare se stessa con tutte le sue forze di bambina invisibile e incompresa, spaventata dalla sua stessa voce, dalle parole che non ne volevano sapere di uscire dalla sua bocca, con l’autostima sempre sotto le scarpe, sentendosi brutta e stupida in ogni momento della giornata. 

La scoperta del nome della sua malattia, “afasia associativa”, finalmente scioglie il grumo di contraddizioni che la soffocava, insieme alla scoperta, alle scuole superiori, della lettura, che diventa un amore travolgente. La possibilità di essere curata da due logopediste, poi di svolgere un corso per sconfiggere la balbuzie la restituiscono alla vera vita, fatta di parole urlate, di gioie incredibili, di divertimento sfrenato. Lasciati gli studi, Laura decide di andare a lavorare in Germania in una gelateria. La scoperta del sesso, prima ancora dell’amore, insieme alla estrema fatica e alle umiliazioni dell’impegno quotidiano, la fanno crescere tanto da voler cercare altre strade, oltre a quella consueta che le si apre davanti, il matrimonio con un ragazzo brasiliano. Decide quindi di tornare in Italia, di andare a vivere e a lavorare a Bologna, facendo dapprima la fame, nel piccolo, sovraffollato appartamento che condivide con altre quattro compagne, finché non riesce a trovare un posto in un fast-food kebabberia. 

L’incontro più sconvolgente della sua intera esistenza è quello con Amir, un giovane persiano che lavora nello stesso locale e frequenta l’università. In un alternarsi spasmodico di emozioni, di sentimenti contrastanti, di ripulse e gratificazioni, Laura attraversa ogni gradazione sentimentale reprimendo continuamente quello che prova, fuoco e gelo, vita e morte, paradiso e inferno interiori, mentre si riaffaccia l’instabilità mentale, con l’incubo di essere considerata male, sentendosi spiata e giudicata perfino dagli operai che lavorano intorno al suo appartamento, di essere sottoposta a misteriosi controlli, di avere le “cimici” nascoste in ogni angolo della casa. L’incomprensione di Amir, la mancanza d’amore, il fatto che lui non la contraccambi la fanno precipitare in un abisso di follia in cui il desiderio di farla finita per sempre diventa tangibile, tanto da farla ricoverare in psichiatria. Anche all’ospedale però la sua psiche è così turbata da farle immaginare di essere capitata in un postribolo e da chiedere il soccorso della famiglia, sempre ossessionata dal pensiero di essere controllata dall’esterno, perfino attraverso il cellulare e il computer, anche quando i suoi la riportano in Sardegna. Riprende faticosamente a vivere grazie alle cure mediche, tanto da essere “imbottita di farmaci” e da stare molto male se ne fa a meno, sempre ossessionata dal ricordo di Amir a cui indirizza lettere che non avranno mai risposta o dedica disegni che lui non vedrà mai, alcuni dei quali corredano il volume. 

I viaggi tra la Germania, il Nord Italia e la Sardegna ricominciano fino al fatale giorno del 30 luglio 2012 in cui compie 26 anni, ma un mese dopo la situazione precipita di nuovo quando Laura assume ben 106 pastiglie tentando il suicidio da cui viene salvata, mentre le torna in mente Amir con i suoi assilli mentali. Le viene infine diagnosticato il “disturbo bipolare”, mentre la vita la riafferra con le poche gioie rappresentate dalle nozze della sorella e dalla nascita delle nipotine, sentendo ancora la tentazione al suicidio da una parte e l’attrazione dell’amore e della vita dall’altra, sempre tormentata dai più cupi pensieri ed esaltata dal desiderio di disegnare, creare, andare verso il futuro nonostante la malattia perturbante, cercando di cancellare i laceranti sensi di colpa, la nera vergogna, i dubbi dilanianti, l’odio verso tutto e tutti e verso se stessa, nella ricerca costante e inarrivabile della normalità. 

Il suo rifugio sono sempre i disegni, le parole, i libri, la scrittura. Anche il lavoro presso la ludoteca di Nuoro, quello che svolgendo attualmente e di cui ci parla nelle ultime pagine del volume, la salva da se stessa, le fa credere che potrà farcela, che possa superare la malattia mentale grazie alla creatività, all’amore per i bambini, all’intelligenza che ormai è certa di possedere senza infingimenti, per arrivare finalmente ad essere felice: quello che tutti vogliono. Testimonianza lacerante di una vita travagliata, generoso dono di sé attraverso la scrittura: di questo dobbiamo essere grati alla scrittrice ma anche all’editrice che ha saputo accogliere tale regalo per portalo a quanti vorranno leggere tra le pagine come tra le pieghe dolorose della carne aperta dell’autrice.

A chi stende questa nota resta da risolvere un dubbio che soltanto Laura potrebbe sciogliere, non per mera curiosità ma per quella capacità che Leopardi augurava a ogni uomo di possedere, la capacità di compatire (patire insieme secondo l’etimologia) ciascun essere vivente. Il dubbio riguarda le cause della sua malattia, davvero misteriosa, che varrebbe la pena indagare a fondo, ma che senza dubbio colei che l’ha patita, e forse la patisce ancora, conosce bene.

Francesca Farina